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Saper dare ascolto nelle relazioni: la base dell’empatia

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Può sembrare una cosa semplice, di fatto si tratta di stare in silenzio e ascoltare ciò che l’altro ha da dire. In realtà, non è per nulla semplice. Ascoltare non è sinonimo di “sentire”, ma di “condividere” e far così sentire la propria presenza nella relazione e il proprio interesse e partecipazione. 

COS’È L’ASCOLTO ATTIVO

Ascoltare i propri interlocutori, ascoltarli veramente, c.d. ascolto attivo, è una vera e propria competenza. La maggior parte di noi si limita a sentire pezzi di discorso qua e là, inframezzati da propri pensieri, voli pindarici, o vere e proprie distrazioni come il cellulare onnipresente. A quanti è capitato di parlare e vedere il proprio interlocutore digitare sul telefonino accompagnando il gesto non proprio da galateo con la classica frase “tu parla pure, ti ascolto”?! Ok, dunque: ascoltare davvero non è così semplice, per niente. Vuol dire sospendere i propri pensieri per seguire quelli dell’altro; vuol dire farsi “prendere per mano” e condurre nella mappa della realtà dell’altro. Molti non ascoltano per nulla, immersi nei propri pensieri e altri ascoltano per rispondere e non per comprendere. In più, ci sono professioni, come quella dell’avvocato, che anche per una propria “deformazione professionale” ascolta quasi solo per rispondere e ben poco per comprendere. Questa è la sorte di chi fa consulenza; consulenti del lavoro e commercialisti non fanno certo eccezione. Il più delle volte, diciamocelo, a questi professionisti non interessa davvero comprendere ciò che l’interlocutore gli sta comunicando, gli interessa solo trovare la soluzione, risolvere velocemente la questione, per passare alla soluzione successiva del caso seguente. La partecipazione, per molti (non per tutti, fortunatamente), non è contemplata.

La capacità di ascoltare è una vera e propria attitudine. Parliamo di ascolto, quindi di dedicarsi in modo interessato al nostro interlocutore escludendo le altre interferenze dalla nostra mente. Sentire e ascoltare sono due cose diverse, così come saper parlare è ben diverso dal saper comunicare. Posso padroneggiare la lingua, posso essere abile nell’arte della dialettica e retorica per ottenere ragione, e posso essere una autentica frana nella capacità di comunicare con gli altri, nel senso proprio di “mettere in comune”. Le parole, come sappiamo, possono spogliare o coprire. 

Ma quali sono i vantaggi dell’ascolto attivo? Molteplici, a cominciare dalla possibilità di instaurare rapporti empatici con i nostri interlocutori, alla possibilità di arricchire la nostra visione del mondo di particolari, punti di vista, esperienze che altrimenti non faremmo mai, alla possibilità di cogliere occasioni che altrimenti non vedremmo mai.

COME ALLENARE L’ASCOLTO ATTIVO IN 5 PASSAGGI

Chiediamoci allora come possiamo, in concreto, allenare l’ascolto attivo? Si rivelerà utile nelle relazioni in studio con i colleghi e collaboratori, in udienza con il giudice, nelle relazioni con i clienti e, perché no, in famiglia e nella vita privata.

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Passo n. 1: lasciar andare i pensieri

La prima causa della incapacità di dedicarsi a ciò che l’altro sta dicendo è che la nostra mente è costantemente alle prese con mille pensieri e preoccupazioni. Viviamo tutti in una continua distorsione temporale, pensiamo al passato – “avrei dovuto…”, “mi sarebbe piaciuto…”, “perché ho detto…” – e al futuro – “temo che…”, “e se…”, “ non vorrei che…”, “speriamo che…”. In tutto questo perdiamo l’unica vera realtà che possiamo vivere concretamente, che è il presente, quella che ci sta intorno in questo preciso momento in cui state leggendo queste righe. Bene, poichè la mente non si può “svuotare” nel senso di assenza di pensieri, perché la nostra mente è fatta per pensare, la vera strategia è “lasciar andare”, “non trattenere”. Per poter coltivare il presente e agire in esso, tra cui ascoltare con interesse chi ci sta parlando, dobbiamo allenarci a lasciar andare i pensieri come nuvole che passano in un cielo azzurro. Invece di voler controllare i pensieri, volerli scacciare, piuttosto che gestire, semplicemente osserviamoli mentre arrivano e se ne vanno. Questa semplice (si fa per dire) modalità è alla base del pensiero zen, della Mindfulness e della maggior parte delle dottrine orientali. Vi ricordate la scena del film L’ultimo Samurai con Tom Cruise mentre si allena con la Katana? Non è efficace nel combattere perché ha troppi pensieri che lo distraggono e lo rendono più debole perché poco efficace. Il suo amico-maestro gli darà un consiglio nel film: “No mente. Troppa mente”. Ebbene, il primo passo dunque per essere presenti a se stessi e al dialogo con il nostro interlocutore è lasciar andare i propri pensieri senza cercare di gestirli in alcun modo e focalizzarsi sulle parole del nostro interlocutore.

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Passo n. 2: l’approccio

Riprendiamo la teoria delle 4 “posizioni esistenziali di Eric Berne, il papà dell’Analisi Transazionale. Berne ci insegna che noi possiamo approcciare le relazioni in 4 modalità principali:

  1. IO SONO OK – TU SEI OK
  2. IO SONO OK – TU NON SEI OK
  3. IO NON SONO OK – TU SEI OK
  4. IO NON SONO OK – TU NON SEI OK

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Ebbene, se noi approcciamo la relazione con il nostro interlocutore dalla posizione n. 2, quindi IO SONO OK – TU NON SEI OK è assai probabile che non lo ascolteremo con interesse, in quanto lo consideriamo inferiore a noi, stupido, un rompiscatole, etc. Nella posizione 2 c’è chi tratta con il mondo in un rapporto alto-basso, dove lui è sempre su un piedistallo e gli altri giù. Questa persona è saccente (sa sempre tutto lui e vuole l’ultima parola) ed è spesso anche arrogante nei modi. La conclusione è che non ascolta perché non gli interessa, perché pensa di non aver nulla da imparare dall’altro, perché si considera migliore del suo interlocutore. Impariamo quindi a relazionarci con gli altri ponendoci sullo stesso piano, quindi con l’idea che ciascuno è migliore di noi in qualcosa, che abbiamo sempre da imparare nei contenuti e nei modi.

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Passo n. 3: la rigidità mentale

Se ci relazioniamo con gli altri partendo da posizioni di principio, da idee scolpite nella pietra, forti e fermi sulle nostri convinzioni… ci sta che non ascoltiamo nessun interlocutore. Nessuno può farci cambiar idea, né vogliamo farlo, pieni di convinzioni e pregiudizi che ci accompagnano. Spesso questo è anche indice di insicurezza, che cela la paura che se ci lasciamo andare, se ci apriamo al mondo, perdiamo le nostre certezze.

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Passo n. 4: torto o ragione

Quasi tutti noi, e gli avvocati in particolari (per la deformazione professionale di cui abbiamo parlato), muovono i loro discorsi dalla ricerca dei torti e delle ragioni. Spesso non interessa proprio capirsi, basta avere ragione, spuntarla sull’altro. Lo vedo nelle riunioni in studio a cui sono chiamato come coach a partecipare: si parla non per capirsi e poi cercare un punto di incontro, ma per a vere ragione. Cominciamo, allora a distinguere i due momenti: prima mi dedico all’altro per capire la sua posizione e solo dopo aver espresso io la mia e lui la sua cerchiamo un accordo, un punto di incontro.

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Passo n. 5: le domande

Ascoltare attivamente è difficile anche perché non siamo stati abituati a fare all’altro domande, domande vere, quelle c.d. esplorative, che permettono all’interlocutore di aprirsi, di spiegarsi, di raccontare ciò che vede e sente. Quasi tutti noi ci relazioniamo mediante affermazioni, sentenze, giudizi. Se invece imparassimo a fare domande e poi ascoltare con interesse le risposte ci accorgeremmo subito di due cose: la prima, è che il nostro interlocutore sarà positivamente colpito da questo approccio perché si sentirà al centro del nostro interesse e gli piacerà, la seconda, è che scopriremo aspetti, particolare, punti di vista, dettagli che ci erano fino a poco prima sconosciuti.

IN CONCLUSIONE

Comunicare è ben diverso dal saper parlare, così come ascoltare è ben diverso dal sentire. Le prime sono competenze, le seconde sono situazioni. Se vogliamo instaurare relazioni positive con gli interlocutori, relazioni empatiche, creare motivazione, far sentire la nostra presenza, è utile avere ben chiare queste distinzioni e decidere di coltivare queste competenze. Coltivare l’ascolto attivo è un vero e proprio impegno finché non diventa una nuova abitudine, ma i vantaggi saranno enormi nelle relazioni, sia all’interno delle organizzazioni di lavoro, con i colleghi e collaboratori, sia all’esterno con i clienti, sia nella vita privata con il partner, i familiari e gli amici. Chi sa ascoltare ha un asset importante nelle relazioni con gli altri, che se unito anche al saper comunicare emozioni e pensieri, rappresenta un vero e proprio potere relazionale

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Mario Alberto Catarozzo

Formatore, Business Coach professionista e Consulente, è specializzato nell’affiancare professionisti, manager e imprenditori nei progetti di sviluppo e riorganizzazione.
È fondatore e CEO di MYPlace Communications, società dedicata al marketing e comunicazione nel business. Nella sua carriera professionale è stato dapprima professionista, poi manager e infine imprenditore. Per questa ragione conosce molto bene le dinamiche aziendali e del mondo del business. Si è formato presso le migliori scuole di coaching internazionali conseguendo le maggiori qualifiche del settore.
Collabora con Enti, Istituzioni e Associazioni professionali e di categoria e lavora con aziende italiane e internazionali di ogni dimensione, dalle pmi alle multinazionali.
È autore di numerosi volumi dedicati agli strumenti manageriali e di crescita personale e professionale. È direttore della collana Studi Professionali di Alpha Test Editore e autore de “Il Futuro delle professioni in Italia” edito da Teleconsul editore.
Professional Certified Coach (PCC), presso la International Coach Federation (ICF).
Per sapere di più sulle attività di formazione, coaching, consulenza e marketing visita i siti:

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Per info e contatti: coach@mariocatarozzo.it.