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Quiet quitting: cosa sta succedendo al mondo del lavoro?

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Non avevamo ancora digerito il termine Big Quit e Great Resignation, che ecco comparire all’orizzonte (ovviamente l’orizzonte verso gli USA) un nuovo trend in atto e relativa definizione anglofona: “Quiet Quitting”. Cominciamo con la traduzione letterale del termine, perché non è proprio immediata e che si può tradurre con “abbandono silenzioso”. Detto così, non fa presagire nulla di buono.

COS’È IL QUIET QUITTING

Innanzitutto, non stiamo parlando – come la traduzione letterale riporta – di un abbandono del posto di lavoro, a differenza delle Great Resignation, che indicano le “Grandi Dimissioni” in atto nel mondo del lavoro, soprattutto giovanile. Se di “abbandono” vogliamo parlare, qui il riferimento è all’abbandono delle forme stakanovistiche del lavoro, che per decenni hanno dettato i ritmi di migliaia di lavoratori e hanno rappresentato il cuore della mentalità insita nel lavoro. Mi spiego meglio. Da sempre sul luogo di lavoro il datore di lavoro ha chiesto il massimo impegno nell’esecuzione delle prestazioni, senso di responsabilità e auspicabilmente dedizione, se non abnegazione alla causa lavoro. In sostanza, il lavoratore non veniva valutato “solo” per l’esecuzione di quanto previsto da contratto e mansionario, ma si richiedeva auspicabilmente di più, quindi un impegno proattivo, una dedizione che dimostrasse attaccamento e qualora in più del mero “sinallagma” do ut des.

Ecco, questa tendenza viene oggi contestata dai lavoratori (almeno da chi sposa questo nuovo trend) – a maggior ragione dopo la pandemia – che vogliono limitarsi a fare il necessario, quanto previsto da contratto e niente più. Il trend, quindi, di chi aderisce a questa filosofia è di dedicare al lavoro il tempo necessario, senza straordinari e senza l’assunzione di responsabilità, ruoli o attività che esulano dal proprio ruolo e contratto di lavoro.

DOVE NASCE?

Il fenomeno nasce dai paesi anglosassoni e in particolare dagli USA, dove su TikTok, l’hashtag #quietquitting ha raggiunto in pochissimi giorni ben 8,2 milioni di visualizzazioni. I social per l’ennesima volta si dimostrano uno straordinario strumenti di diffusione di tendenze, in quanto è facile e veloce la condivisione di idee, che diventano topics o trend. TikTok sappiamo poi che è il social dei più giovani e infatti sono loro i più sensibili al work life balance e quindi a tutto ciò che può restituire tempo libero per le passioni e qualità di vita. Non a caso la Generazione Y è anche la c.d. generazione YOLO (You Only Live Once = si vive una volta sola). La tendenza che si sta diffondendo tra i giovani (e non solo) è dunque un’inversione di tendenza rispetto al passato: se prima lavorare tanto era un must, accompagnato dalla cultura del senso di responsabilità e spesso dal senso di colpa, ora lavorare il giusto è la tendenza. Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere, questo è il nuovo mantra delle nuove generazioni.

COME VIENE INTERPRETATO

Il vero rischio che oggi si corre è che vi possa essere una deriva di un trend, in realtà, che ha un suo perché e una sua logica, cioè dedicare il giusto tempo al lavoro (soprattutto se il lavoro non rientra nelle tue passioni) e dedicare il giusto tempo ad una vita sana sotto tutti i punti di vista. Tuttavia, si è già verificato che le interpretazioni di questo nuovo filone prendessero la tangente e si cominciasse a parlare di lavorare il minimo indispensabile, di lavorare poco, di imparare a dire di no più spesso e così via. Ciò, ovviamente, ha creato diverse preoccupazioni in azienda e tra i datori di lavoro, che hanno temuto che la filosofia diventasse quella del “lazzarone” al lavoro, del fancazzista e del burocrate che fa “melina” per non fare di più.

COME DEVE ESSERE INTERPRETATO

La vera e corretta lettura di questo fenomeno può avvenire solo mettendolo in abbinamento ad un precedente trend, soprattutto di matrice americana, chiamato hustle culture, cioè la tendenza nel mondo del business di dedicare l’intera vita al lavoro, giungendo in molti casi al wokhaolic, chi è malato di lavoro, fino al burnout, l’esaurimento nervoso, per dirla come le nostre nonne. Le cause di questo precedente trend sono legate al mito del guadagno, al mito del successo, al mito del lavoro come unica fonte di realizzazione, che poi in epoca pandemica è esploso occupando le intere giornate di manager e dipendenti, senza più distinzione tra vita privata e lavorativa.

Secondo una ricerca condotta dalla Harvard Business Review, invece, questo trend denominato Quiet Quitting è una reazione più che all’eccessivo lavoro, alle pessime relazioni che si instaurano spesso con i propri team leader, i manager a capo delle divisioni e reparti e che portano le persone a non vedere l’ora di uscire dall’ufficio e “reagire” alle condizioni di lavoro facendo, appunto, il minimo per non essere passibili di essere ripresi dai superiori, ma niente più. Come dire: l’azienda non si merita di più da me.

Qualunque sia la vera fonte di questo nuovo trend, una cosa è certa: 

i dipendenti si sono resi conto di non essere sufficientemente coinvolti 

nella vita aziendale e nei progetti aziendali e in alcuni casi ciò è frutto di specifiche 

scelte aziendali, in altri è frutto di incapacità dei manager di coinvolgerli.

Se questo un tempo non era così evidente a molti ed era vissuto come “normale”, oggi non lo è più, perché i collaboratori vogliono di più che la “semplice” retribuzione dal proprio posto di lavoro: vogliono condivisione, sentirsi parte attiva, potersi realizzare e crescere in un ambiente sano dove trascorrere buona parte della propria vita. Se questo non accade cambiano – ed ecco le Great Resignation – oppure restano, ma danno il minimo rispetto agli incarichi per cui sono pagati.

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Mario Alberto Catarozzo

Formatore, Business Coach professionista e Consulente, è specializzato nell’affiancare professionisti, manager e imprenditori nei progetti di sviluppo e riorganizzazione.
È fondatore e CEO di MYPlace Communications, società dedicata al marketing e comunicazione nel business. Nella sua carriera professionale è stato dapprima professionista, poi manager e infine imprenditore. Per questa ragione conosce molto bene le dinamiche aziendali e del mondo del business. Si è formato presso le migliori scuole di coaching internazionali conseguendo le maggiori qualifiche del settore.
Collabora con Enti, Istituzioni e Associazioni professionali e di categoria e lavora con aziende italiane e internazionali di ogni dimensione, dalle pmi alle multinazionali.
È autore di numerosi volumi dedicati agli strumenti manageriali e di crescita personale e professionale. È direttore della collana Studi Professionali di Alpha Test Editore e autore de “Il Futuro delle professioni in Italia” edito da Teleconsul editore.
Professional Certified Coach (PCC), presso la International Coach Federation (ICF).
Per sapere di più sulle attività di formazione, coaching, consulenza e marketing visita i siti:

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Per info e contatti: coach@mariocatarozzo.it.