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Public speaking: gli oratori eccellenti fanno così

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Partiamo dalla fine, tanto per cominciare. Anche chi se la cava bene nel parlare in pubblico e nel condurre discorsi, il più delle volte dedica buona parte del suo tempo a curare “l’attacco” dello speech. Certo, l’ansia è palpabile e quindi si cerca di porre rimedio a questa sensazione sgradevole iper-preparandosi al suo superamento. È un po’ come se un ciclista temesse particolarmente una salita e prendesse una super rincorsa per essere sicuro di farcela. E ce la fa, con un po’ di affanno e di emozione, ma ce la fa. E fin qui tutto sommato, va ancora bene. La conseguenza quasi automatica è che dopo aver curato l’incipit e aver messo molta carne al fuoco per il prosieguo dello speech (sempre sospinti dal timore di aver poco da dire e che finiremo quindi prima del tempo, con tanto imbarazzo nostro e del pubblico) ci si dimentica di dare una chiusura altrettanto emotivamente coinvolgente. In altre parole, anche dopo un bel discorso, una bella presentazione, si chiude in sordina, di fretta e furia, sottotono. E poiché i due momenti più importanti del public speaking sono l’inizio e la fine dello speech, ecco che ne abbiamo già condannato uno ab origine. L’incipit, l’attacco, è importante, perché il pubblico nei primissimi secondi si forma una prima (e importante) opinione dello speaker e del discorso. Tale opinione si poggerà su due elementi: ciò che trasmette “a pelle” il relatore (empatia/antipatia) e ciò che trasmette il contenuto dello speech (l’interesse e l’attrattività del discorso). Detto in altri termini, chi ben inizia è a metà dell’opera, ma poi deve completarla, altrimenti a metà resta.

Quando il pubblico si alzerà, a fine discorso/presentazione, si porterà via non tanto le nozioni tecniche acquisite durante lo speech, quanto una sensazione, un insieme di emozioni. Provate all’uscita da un convegno a chiedere ad alcuni partecipanti un’opinione sul convegno stesso e annotatevi ciò che dicono; noterete come praticamente tutti vi risponderanno con un giudizio di tipo emotivo su ciò che hanno provato, sul relatore, sugli effetti del discorso. Vi sarà chi risponderà “è stato molto interessante”, chi “bravo, davvero bravo il relatore”, chi “è stato davvero piacevole” o al contrario “interessante l’argomento, ma noioso il relatore”; altri si spingeranno su considerazioni temporali “talmente coinvolgente che il tempo sembra volato”, oppure “sì sì utile, ma non finiva più”. Infine, i più cinestesici si cimenteranno in giudizi sensoriali del tipo “meglio una bastonata in testa la prossima volta” o “fantastico, mi sento carichissimo, è stato entusiasmante”. L’incipit ha creato le condizioni migliori (oppure no) predisponendo gli animi dell’audience all’ascolto e alla partecipazione emotiva (empatia) al discorso; la chiusura ha messo il sigillo allo speech consegnandolo nelle mani dei partecipanti carico (o meno) di energia, emozione e spinta.

Dunque due buone regole da ricordare sempre: quando si inizia uno speech fatelo con la giusta energia, non esagerate stile treno in corsa che travolge tutto ciò che incontra, né procedete incerti, in punta di piedi, cercando di non fare troppo rumore in modo che nessuno si accorga di voi e vi chieda qualcosa, spaventati come se foste un ladro di notte in punta in una boutique. Cercate il contatto visivo con il pubblico, abbracciatelo con il vostro sguardo, fatelo sin da subito sentire coinvolto, fate qualche domanda per instaurare un rapporto e rompere le barriere emotive vostre e loro. Create ponti. E passateci sopra spesso da voi a loro e ritorno.

Seconda buona regola è quella di andare subito al centro del discorso, di puntare al centro del bersaglio. Evitate quindi premesse su premesse, di girare intorno all’argomento dicendo poi vedremo, di essere vaghi senza dare punti di riferimento a chi vi ascolta. La mente umana necessita di punti di riferimento: cosa stiamo facendo, cosa faremo e perché. E come andrà a finire, quindi cosa ci porteremo a casa stasera da tutto questo. Tradotto meglio la domanda più o meno consapevole che si agita nelle menti di chi vi guarda parlare è: “sto investendo bene il mio tempo (e soldi)? Mi sarà utile questa giornata? Cosa saprò/saprò fare dopo?”.

Bene, ora siete (più) pronti; buon public speaking (per voi e per chi vi ascolterà)!

Mario Alberto Catarozzo

Formatore, Business Coach professionista e Consulente, è specializzato nell’affiancare professionisti, manager e imprenditori nei progetti di sviluppo e riorganizzazione.
È fondatore e CEO di MYPlace Communications, società dedicata al marketing e comunicazione nel business. Nella sua carriera professionale è stato dapprima professionista, poi manager e infine imprenditore. Per questa ragione conosce molto bene le dinamiche aziendali e del mondo del business. Si è formato presso le migliori scuole di coaching internazionali conseguendo le maggiori qualifiche del settore.
Collabora con Enti, Istituzioni e Associazioni professionali e di categoria e lavora con aziende italiane e internazionali di ogni dimensione, dalle pmi alle multinazionali.
È autore di numerosi volumi dedicati agli strumenti manageriali e di crescita personale e professionale. È direttore della collana Studi Professionali di Alpha Test Editore e autore de “Il Futuro delle professioni in Italia” edito da Teleconsul editore.
Professional Certified Coach (PCC), presso la International Coach Federation (ICF).
Per sapere di più sulle attività di formazione, coaching, consulenza e marketing visita i siti:

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Per info e contatti: coach@mariocatarozzo.it.