Di fronte ad una situazione problematica vi possono essere diversi modi di reagire. Spesso nella quotidianità quando ci si presenta un problema lo affrontiamo istintivamente, spinti dall’ansia di togliercelo “dai piedi”, piuttosto che dall’onda emotiva.
Se proviamo a pensare ad una giornata lavorativa-tipo ci accorgiamo che si arriva a sera e invece di aver realizzato quanto ci eravamo promessi siamo stati risolutori di problemi, piccoli e grandi. La nostra giornata si è frammentata in tante piccole operazioni, in tante “toppe” messe qua e la. Insomma, è andata in modo completamente diverso da come ce l’eravamo immaginata. Da qui la convinzione che tanto pianificare non serve a nulla, perché non posso avere il controllo delle mie giornate. La sensazione che ci resta addosso è spesso di insoddisfazione, di non compiuto, di stress.
Abbiamo già visto in precedenti post di questo blog quanto è importante la pianificazione delle attività, la programmazione e la gestione del tempo per potersi sentire soddisfatti e pieni di energia in ufficio.
Oggi affrontiamo invece il come approcciare i problemi; come dunque generare soluzioni e pianificare interventi di fronte a obiettivi e situazioni di una certa entità e che, quindi, decisamente non è opportuno affrontare “ad impronta”, ma di fronte ai quali è indispensabile avere un atteggiamento da problem solver.
Sarà questo il primo di una serie di post dedicati all’argomento, con la speranza di offrire ai professionisti e non solo, spunti di riflessione per affrontare la propria quotidianità con una mentalità più orientata al problem solving strategico unito alla creatività di cui ciascuno di noi è ampiamente dotato, basta usarla.
La premessa è che di fronte ad un problema, ad una sfida, ad una situazione che richiede una soluzione, vanno distinti due momenti che andranno tenuti separati:
A) il momento del problem setting, cioè il momento in cui va definito il problema nella sua entità, va delineato il perimetro, va “pesato”, va contestualizzato temporalmente e spazialmente; va insomma fatto l’identikit del problema in modo da conoscerne tutti gli aspetti per poterlo poi gestire nel suo complesso;
B) il momento del problem solving, in cui vanno generate opzioni, quindi possibili approcci al problema, strategie e soluzioni per poi selezionare quella che riteniamo più opportuna.
A questi due momenti poi ne segue, in realtà, un terzo che è quello della presa di decisione (decision making) e relativa attuazione, quindi l’azione.
Spesso invece tendiamo a mischiare o saltare del tutto una di queste fasi e cominciamo ad affrontare il problema senza ancora conoscerlo nel suo insieme, senza averne valutato le possibili soluzioni e approcci, salvo poi in itinere porci domane, avere dubbi e quindi perdere ulteriore efficacia nella nostra azione perché “sporcata” dal pensiero dubbioso e dall’ansia.
Invece, prima va fatta una valutazione, pondero, rifletto e pianifico e poi, chiusa questa fase, agisco. L’azione sarà così pulita, energica, focalizzata fino alla tappa di verifica intermedia che mi sono fissato. Qui mi fermerò a valutare il percorso fatto e con elasticità introdurrò modifiche utili, per poi ripartire fino alla tappa successiva. Un po’ come le tappe ciclistiche del Giro d’Italia: mi preparo prima, poi quando sono in pista corro e non penso più, salvo la sera, a tappa raggiunta, fare una verifica di com’è andata e riprogrammare la miglior strategia per il giorno dopo.
La prima strategia che proponiamo ora è quella chiamata “dello scalatore”. Quando pensiamo ad una pianificazione, istintivamente pensiamo che si debba partire da dove siamo ora e pianificare i passaggi, gli step, per arrivare al nostro obiettivo, in un’ottica di graduale avanzamento.
Vero, questa è una delle possibili metodologie. Ne esiste anche un’altra, opposta. Questa prevede che, una volta fissato il risultato che vogliamo raggiungere, si parta proprio da questo e a ritroso, come i salmoni che risalgono la corrente, si ricostruiscano i passaggi necessari, piccoli (baby step) e quindi di facile e immediata applicazione.
Il primo vantaggio nel partire “dal fondo” è emotivo: visualizziamo il risultato e più lo facciamo con novizia di particolari, più “sentiamo ora” la sensazione di soddisfazione che proveremo allora. Questa è la prima vera boccata di ossigeno utile ad intraprendere la scalata.
Il secondo vantaggio è di focalizzazione: partire dall’obiettivo promessoci fa sì che non progetteremo percorsi fuorvianti, che ci porteranno verso mete diverse da quelle prospettate e che, a quel punto, dovremo accettare e farci andar bene per non “buttar via” gli sforzi compiuti.
Questa metodologia “a ritroso” permette di ricostruire in modo più preciso e sequenziale gli step, i passi, utili a farci progredire verso la meta. I vantaggi psicologici, emotivi e pratici di questo approccio saranno subito evidenti. Scalare una montagna è emotivamente difficile se partiamo dalla base e guardiamo in alto: ci sembrerà enorme, irraggiungibile. Più semplice è considerare la vetta di arrivo e pensare step by step a ritroso cosa ci conviene fare, cosa è meglio e più adatto a noi.
La cima sembrerà più vicina e la sensazione sarà di dominare la montagna invece che di essere piccoli piccoli di fronte ad essa con l’ansia di non potercela fare.
Provate, è l’unico modo!