La paura di essere felici…sembra una contraddizione in termini. Invece è uno degli ostacoli maggiori per la maggior parte di noi. Chi segue il mio blog e i miei scritti sa che in passato abbiamo parlato della paura del fallimento, della paura degli errori; mai della paura di essere felici.
Prendo spunto da una intervista letta su IO Donna del 6 agosto 2016. Maria Laura Giovagnini intervista Luca Argentero e la frase che mi colpisce di più è proprio questa “Hai solo timore di aver trovato le risposte giuste e di metterle in pratica…”.
Mentre leggo, la mente recupera un vecchio ricordo di una lettura giovanile: Nel nome del padre. Edipo e Prometeo, di Marina Valcarenghi (1997). “I miti di Edipo e Prometeo raccontano il desiderio eterno di trasgredire l’ordine e di costruire qualcosa di nuovo” – racconta l’autrice – ma il desiderio di trasgredire alimenta tante paure, di cui una è proprio quella di accorgersi un giorno di essere più felici dei propri genitori…
Può sembrare naturale questa spinta, ma il limite della felicità di chi ci ha generato e poi cresciuto è un muro di cristallo, tanto invisibile quanto resistente.
È come una soglia, un confine oltre il quale si è davvero da soli, psicologicamente, quantomeno. Per creare un proprio ordine, un proprio futuro è necessario rompere quello precostituito da chi ci ha generato e questo fa paura più di ogni altra cosa. Si agita la paura del tradimento, dell’abbandono, sia nel senso di abbandonare che di essere abbandonati. Per non parlare della paura del rifiuto e del fallimento. Tanta roba, direbbe un mio amico.
Penso alla mia professione di coach e di formatore. Incontro migliaia di persone ogni anno. Professionisti, imprenditori, manager, ma anche persone comuni che sono stanche di una vita che non sentono più loro. La sensazione che mi raccontano è di essere portatori di valori altrui, di essere ingabbiati in emozioni di cui vorrebbero liberarsi, di non riuscire a trovare la via d’uscita che li conduca verso la propria realizzazione.
E se poi non funziona? Quale sarà la mia direzione? So cosa non voglio, ma non cosa voglio. Non ci ho mai davvero pensato. Non mi sono mai preso questo lusso di credere di poter fare altro. È oramai troppo tardi, dovevo pensarci prima…
Queste le risposte: alibi, scuse, convinzioni, paure. Ed ecco che la vita viene vissuta come una somma di scelte “via da”, invece che “verso”.
Si reagisce, continuamente, a qualcosa.
L’impegno è nel farsi tornare comunque i conti. L’impegno è nel cercare di “starci dentro”, di “sopravvivere” in attesa di chissà che. Come se il compito non sia la propria realizzazione, ma tenere posizione nel fortino…
Io l’ho fatto: ho creduto e lavorato per poter essere più felice dei miei genitori. Ho creduto di poter fare un giorno il lavoro della mia vita, qualcosa che mi desse pienezza, soddisfazione, felicità. Dopo vent’anni da manager, dieci anni fa ho completato il mio percorso in PNL prima e in coaching dopo. Mi sono preparato (ho studiato tanto, tantissimo) e poi ho lanciato i dadi della mia vita. Ho lasciato un posto sicuro con lo stipendio a fine mese e ho intrapreso una nuova strada fatta di passione, impegno, dedizione. Sono diventato imprenditore di me stesso, ho lavorato con le persone e per le persone, quello che mi piaceva da sempre fare. Oggi mi sento realizzato, soddisfatto, felice. Sono riuscito a trasformare quella odiosa frase di mio padre “il lavoro è una cosa seria” (quasi drammatica per lui, oserei dire), in “il lavoro è una cosa bellissima, se ti piace quello che fai”. Ci si può divertire, si può continuare ad imparare e a crescere, c’è creatività, c’è la realizzazione dei propri valori e del proprio stile.
Sì, si può.
Poi ho imparato un’altra cosa: che i percorsi che facciamo vorremmo condividerli con un’altra persona per fare in modo che anche l’altro lo faccia insieme a noi. Non è così, almeno non lo è così spesso.
Il più delle volte il nostro percorso è un percorso che dobbiamo fare da soli
e lasciare che l’altro faccia il proprio.
È così che, questa volta dal punto di vista affettivo, ho dovuto lanciare di nuovo i dadi della mia vita.
Per poter avere qualcosa di nuovo dobbiamo imparare a fare spazio.
Non possiamo essere accumulatori compulsivi di persone, affetti, oggetti, situazioni. Bisogna imparare a lasciar andare. Il cammino diventa più leggero e in questo modo si crea lo spazio perché le cose possano evolversi, cambiare, aggiornarsi al proprio tempo. Stare insieme è un’alchimia fatta di momenti. Anche qui, la cultura e la morale in cui viviamo ci fa credere che lasciare qualcuno sia fatto “contro” quel qualcuno. Invece dobbiamo imparare a modificare l’approccio: fare scelte, tra cui quella di continuare senza una persona, non è “contro qualcuno”, ma “a vantaggio nostro” (e forse anche dell’altro, arrivati a quel punto). Si agita qui il senso di colpa e l’ancestrale paura dell’Hybris greco: la paura di osare troppo e per questo di essere puniti per aver osato. Ma di questo, se avrete voglia di seguirmi, ne parleremo nel prossimo articolo di questo blog.
Buon sole a tutti, intanto.