La nuova diatriba tra Guelfi e Ghibellini oggi non si gioca più sulle posizioni politiche come nel basso Medioevo tra le due fazioni più influenti, oggi si gioca su chi è a favore dello smart working e chi, invece, è contrario.
Gli elementi a supporto delle due posizioni vengono articolate in ragionamenti e in stati d’animo e la discussione sta prendendo più una posizione di principio, che non una vera valutazione dei rischi/benefici.
POSIZIONI CONTRO LO SMART WORKING
Contro lo smart working, se non in via residuale, e quindi relegato ai ritagli di tempo, si schierano coloro che vedono nella distanza fisica una barriera alla socialità e alla creatività dei collaboratori e colleghi. La distanza è da considerarsi come un vero e proprio gap, un disagio che va ad incidere sull’umore delle persone, che lontani dall’ufficio e, ancor più, soli in casa o nelle location deputate al lavoro si demotiverebbero, si sentirebbero isolate e cadrebbero lentamente in una sorta di letargia lavorativa, privi di stimoli e sollecitazioni umane e professionali.
La seconda grande ragione per schierarsi contro la flessibilità del lavoro, soprattutto se resa una modalità permanente e largamente utilizzata, è da ricercarsi nel fatto che si ritiene che la creatività, e quindi la fantasia e l’intuito sarebbero nutriti dagli incontri continui con gli altri esseri umani abitanti dello studio o dell’azienda e dagli incontri casuali davanti alla macchinetta del caffè e dalle riunioni in presenza. Tutto questo con il lavoro da remoto verrebbe meno, con conseguente diminuzione della partecipazione attiva delle persone e della genesi creativa che il contatto fisico avrebbe su di loro.
MA SARÀ PROPRIO COSÌ?
Senza voler in questa sede prendere posizioni, proverò solo a fare alcune considerazioni su cui è opportuno condurre una riflessione.
Lo smart working è nato come soluzione di emergenza e nel tempo è diventata una forma organizzativa del lavoro nuova. Essa rientra nel concetto di smart workers, già presente prima della pandemia e largamente utilizzato da tutti: i lavoratori smart sono coloro che lavorano in mobilità, che rispondono alle email in qualunque luogo e momento e non più solo dall’ufficio, sono coloro che lavorano da diverse location (treno, autobus, aereo, mare, montagna, laghi). Quindi non è un concetto nuovo, solo che è stato introdotto (lo smart working) su vasta scala in occasione di una emergenza e di tutta fretta, per cui è stato vissuto da tutti come una soluzione emergenziale e organizzata alla buona, di corsa. Ricordiamoci che era già utilizzato prima del lockdown da aziende multinazionali, dove rientrava nella cultura aziendale e in un proprio stile di lavoro.
In secondo luogo, dovremmo chiederci se questa modalità organizzativa non segua la cultura dei tempi in un nuovo bisogno di life/work balance che i ritmi di lavoro oggi richiede e che in passato non era così necessario.
In terzo luogo, bisogna capire se ora, dopo che le persone hanno provato che si può lavorare distanza bene, in modo più comodo e flessibile, gestendo meglio le proprie attività e la propria vita in una visione olistica, sarebbero contente di tornare indietro. Probabilmente, ci troveremmo collaboratori malmostosi e cupi, perché non contenti del ritorno a pieno tempo in ufficio e quindi dubito che davanti alla macchinetta del caffè si parlerà amabilmente di progetti e penso che il tempo sarebbe speso più a lamentarsi che a creare.
Quanto alle riunioni, la mia esperienza mi fa dire che erano già prima molte di più le riunioni mal gestite, dove parlavano sempre gli stessi e dove la gente era distratta, che non le riunioni con fermento partecipativo di tutti.
Infine, quanto agli incontri casuali in corridoio, a memoria non ricordo di grandi idee nate così e se il caso deve fare la sua parte in modo così imponente, perché non pensare che casualmente ci possiamo imbattere in contenuti sul web che accendono una lampadina della creatività anche nel lavoro a distanza?
Forse ciò che preoccupa maggiormente manager e titolari di studio sono più l’abbandono di pregresse abitudini e la mancanza di praticità con i nuovi strumenti, che non valutazioni fondate su reali esigenze organizzative. Immagino, infatti, i discorsi a inizio ‘900 quando si è passati dalle carrozze con i cavalli alle automobili: anche lì qualcuno avrà detto che era meglio prima, più elegante, più socializzante, più naturale e più efficace la buona vecchia carrozza col cavallo…della fumosa automobile. Stessa considerazione mi viene da fare nel passaggio dagli atti scritti a mano, di pugno, a quelli prodotti direttamente a computer. Forse c’è tra di noi ancora un commercialista, un avvocato o un consulente del lavoro che scrive le lettere a mano? Oppure che prepara gli atti di pugno? O che fa le buste paga a mano? Non credo. Tutti lavoriamo direttamente a computer e ci sarà stato un tempo in cui, nella fase di passaggio, molti avranno detto che era meglio prima, che si ragionava meglio con carta e penna, che il computer è una disgrazia….eppure oggi siamo tutti qui a scrivere e usare il computer e nessuno si sognerebbe mai di dire al collaboratore di scrivere a mano e poi riportare a computer.
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POSIZIONI A FAVORE DELLO SMART WORKING
A supporto di questa modalità organizzativa ci sono tante argomentazioni:
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- Miglior life/work balance
- Risparmio di tempo e fatica
- Ottimizzazione dei tempi e elle performance
- Ampliamento delle opportunità lavorative
- Allargamento del mercato
- Riduzione dei costi
- Maggior socialità (paradossalmente)
- Miglior relazione con i clienti
- Minor impatto sull’ambiente
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Qualunque sia la posizione verso cui propendete, una riflessione sul fatto che i tempi sono maturi per lo smart working sia a livello tecnologico che economico e sociale va fatta.
Inoltre, suggerirei di concentrarci più sulla cultura necessaria a gestire lo smart working, sull’educazione all’uso dello strumento, che non sulla discussione sulla bontà dello strumento stesso, che in quanto strumento non è né buono né cattivo, tutto dipende dall’uso che se ne fa.
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