L’hanno ribattezzata così negli USA “Great Resignation” o “Big Quit”, le grandi dimissioni o grande uscita. Che cos’è? Assistiamo ad un cambio di cultura prima di tutto. Se prima della pandemia le persone erano quasi “assuefatte” ai ritmi di lavoro spesso da bornout ed erano disposte a fare grandi sacrifici anche solo per raggiungere il luogo di lavoro (code infinite in auto, viaggi in treno e autobus), ora che il grande stop della primavera 2020 ha portato tutti ad una battuta d’arresto, pare aver generato nelle persone una nuova consapevolezza.
NON SOLO SMART WORKING
Il tema non si concentra solo sul lavoro ibrido da molti (se non tutti) assai richiesto, perché più comodo in una vita complessa com’è quella dove si deve cercare un equilibrio tra famiglia e lavoro, ma si estende anche ai rapporti di lavoro e alle condizioni di lavoro. Se prima si guardava principalmente l’aspetto retributivo nelle scelte dei lavoratori, ora l’aspetto retributivo resta importante, ma non centrale. Si preferiscono altri benefit, come la qualità del clima lavorativo, la comodità del luogo di lavoro, la flessibilità del lavoro, i ritmi e le prospettive di crescita non solo economiche. Secondo i dati del Ministero del Lavoro, nel 2021 si è registrato un aumento considerevole dei contratti di lavoro terminati per dimissioni volontarie dei lavoratori e non per licenziamento. Tra aprile e giugno 2021, per esempio, sono state ben 484mila le dimissioni volontarie dal posto di lavoro, ben il 37% in più rispetto allo stesso periodo del 2020. Questo trend era in realtà già in atto dal 2017 e la pandemia non ha fatto altro che fare da catalizzatore velocizzando il processo.
QUALI LE MOTIVAZIONI ALLA BASE DELLA RICERCA DI UN NUOVO LAVORO
Tra le motivazioni esposte da chi ha cambiato volontariamente lavoro ci sono la ricerca di maggior flessibilità (32%), la ricerca di maggiori soddisfazioni non solo economiche, ma anche di funzioni e di coinvolgimento (27%), maggior ricerca di equilibrio tra vita privata e professionale e poi i classici avanzamenti di carriera. Tutto questo deve indurre una riflessione, tra chi pensa che i lavoratori cambino solo per soldi il proprio posto di lavoro; non è così e lo è sempre meno. I lavoratori vogliono essere coinvolti, vogliono essere parte dei processi, vogliono ritagliarsi un proprio spazio e vogliono ambienti di lavoro dove crescere sotto ogni punto di vista. Spesso sentiamo i titolari di studio o di azienda lamentarsi che i giovani non vogliono fare sacrifici, soprattutto se paragonati ai sacrifici delle precedenti generazioni di cui fanno parte. Questo è in parte vero, ma è anche vero che non hanno torto a non voler dedicare la propria vita al lavoro se il lavoro non è di qualità, non offre prospettive e non li coinvolge in un percorso di crescita. Come dargli torto. Poi, ovviamente, ci sono i lazzaroni, i nullafacenti, coloro che non hanno entusiasmo per nulla, ma quelli ci sono sempre stati.
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QUALITÀ DI VITA
Come dare torto a chi non ha più voglia di code estenuanti in tangenziale, oppure di vivere in monolocali solo per stare vicino al luogo di lavoro ed evitare tali code. Come non essere d’accordo con chi è stanco di mangiare panini al bar, o in mense dove la cotoletta sembra una suola di scarpa. E come non condividere il disagio di chi non riesce a fare la pausa pranzo per i ritmi di lavoro ed è costretto a mangiare davanti al computer o a portarsi a casa il lavoro? Insomma, un conto è avere spirito di sacrificio, un conto è sacrificarsi senza uno scopo vero. Una vita equilibrata, dove vi sia spazio per lo sport, per la vita sociale, per la famiglia penso che sia l’aspirazione di tutti e allora tutti gli attori del mondo del lavoro dovrebbero mettersi una mano sul cuore, come si suol dire, e chiedersi cosa possono fare ciascuno di loro per rendere questa aspirazione possibile. Per certi versi la pandemia ha posto fine ad una visione del lavoro che culturalmente affondava le radici nella rivoluzione industriale di fine ottocento, dove i progressi hanno riguardato più gli aspetti della tutela dei diritti (vedi lo Statuto dei Lavoratori) e della tecnologia, che non la mentalità del lavoro.
A COSA SERVE IL LAVORO?
A volte penso che ci siamo smarriti; sì, che abbiamo perso il senso che tutto questo deve avere. Il lavoro deve essere un momento importante della vita di una persona, perché attraverso esso ci si può garantire autonomia economica, quindi dignità, libertà e spazio sociale. Per essere tale il lavoro deve essere fonte di realizzazione per la persona, deve dargli dignità prima di tutto sul luogo di lavoro; perché ciò avvenga il lavoro deve essere basato su una partnership tra i soggetti del progetto a cui si partecipa. Dal “lavoro transazionale”, basato sullo scambio di prestazioni (soldi contro lavoro) si sta finalmente passando al “lavoro relazionale”, basato sulla fiducia e sulla relazione. Si parte da un obiettivo comune, si costruisce un progetto in cui ciascuno ha un ruolo e ci si impegna tutti per raggiungerlo, nel rispetto reciproco, in una crescita continua di tutti, in un clima di energia e di proattività. Perché tutto questo si è perso nel tempo? Forse la pandemia non è stata poi così negativa come molti temevano: forse ha scoperchiato un periodo che non andava affatto, dove le persone erano a rischio bornout e l’insoddisfazione serpeggiava nelle vite di tutti. Abbiamo una grande occasione di rimettere in pista questo percorso e renderlo decisamente migliore di prima. DA dove partire? Dalla cultura, dalla mentalità, da sé stessi e poi dalle competenze, soft skills necessarie a rendere il tutto concreto.
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