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Fuggire o lottare per vivere? Dov’è la vera libertà?

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Esistono tanti modi per fuggire. Non è questo il punto. Ma da che cosa e ancor di più verso che cosa, ecco questo è il vero problema. La fuga è un atto di viltà o di coraggio, è la presa di coscienza o al contrario il rifiuto della conoscenza? Si fugge per disperazione o si fugge per speranza? Si fugge per non vedere o si fugge perché si ha visto? Letteratura cinema e musica ci restituiscono capolavori assoluti su questo tema. Perché si può fuggire nei sogni, nei ricordi, nelle vite altrui, su piccole strade o su grandi distanze, senza un progetto  o verso un obiettivo, da soli o in compagnia. Unico costante compagno di viaggio, sempre e comunque, alleato e bussola della fuga esistenziale è la libertà, quel senso di affrancamento che la distanza del viaggio ci dà.

Anche quando il viaggio è soltanto immaginario, una parentesi breve fatta di dimenticanze. È lasciare indietro, allontanarsi da luoghi, persone, fatti. È l’annichilimento dei nostri ricordi, quel tentativo disperato di lasciare goccia a goccia il proprio sé intriso di passato lungo la strada. Si fugge perché ci si sente vittime e l’unico riscatto è negarsi al mondo, quel mondo che non ci appartiene, che non ha mantenuto ciò che aveva promesso. “Parlare di libertà ed essere liberi non è la stessa cosa” afferma  un giovane Jack Nicholson in Easy Rider (1969) nei panni dell’avvocato George Hanson. Capolavoro degli anni ’60 del regista Dennis Hopper è tra i più famosi road movie d’oltreoceano, manifesto della fuga di una intera generazione, gli hippy, dal sistema e dai valori di un Paese. La fine tragica e un po’ deprimente dei nostri protagonisti uccisi a fucilate sulla strada di ritorno è un simbolo, quello della scomparsa violenta di quei sogni che la fuga non è riuscita a trasformare in realtà, perché essa stessa agita fuori dalla realtà, in parallelo o in contrasto con essa, ma comunque al di fuori delle sue regole e pertanto destinata a rimanere isolata come l’asola su un tessuto. La fuga al suo inizio ha già in sé i semi della finitudine, nella migliore delle ipotesi un ritorno alla realtà, con amarezza e delusione, nella peggiore un addio da essa. La fuga non è un rimedio, nel senso di sanare, riparare e quindi mettere a posto, ma una soluzione, nel senso etimologico di “solvere”, cioè  separare, pagare la pena nel tentativo vano di liberare e quindi di liberarci. Chi fugge cerca una soluzione, non un rimedio. Ma la realtà ci offre solo la possibilità di rimediare, di mettere a posto, quantomeno di provarci, nella migliore delle ipotesi; il resto è illusione destinata a frantumarsi sugli scogli di qualunque approdo il nostro viaggio riesca a raggiungere.

Non si fugge solo da una cultura che non si sente più di appartenerci, a volte si fugge anche dalle persone. Sulla strada della fuga attraverso i deserti americani troviamo Thelma e Louise. Un altro film manifesto, questa volta del riscatto femminile da una società maschilista e violenta, una violenza di cui esse stesse diventano autrici, loro malgrado. Siamo negli anni ’90 con Ridley Scott che ci regala un affresco-simbolo di un’inquietudine ancora una volta di un’intera generazione, questa volta non più dal confronto tra due filosofie di vita, hippy-square come in Easy Rider, ma tra due mondi, il maschile e il femminile, con tutto il carico di valori sociali che esso comporta. Thelma & Louise sono il simbolo della fuga dai sogni sbiaditi della famiglia americana, dove per liberarsi si è costretti ad uccidere, perché dalla vendetta possa risorgere il coraggio di provarci ancora, di riprendersi ciò che non si era osato desiderare come un diritto sacrosanto. È il deserto dell’Arkansas ad accogliere questa fuga, un deserto proprio come quello della loro vita che le nostre protagoniste si lasciano alle spalle. È la fuga da mariti violenti, da routine soffocanti, da vite troppo simili ogni giorno per essere ricordate. Thelma è la gioventù ancora leggera e intatta con un futuro da conquistare; Luoise è la maturità con un passato da riscattare, segnato da una violenza sessuale che ancora grida vendetta, e la troverà sul suo percorso. Le due all’inizio non agiscono, reagiscono. Anche qui che la fuga si colora di illusione di potercela fare, di superare quel confine-simbolo che è il Messico, oltre il quale ci aspetta una nuova esistenza. Migliore, quantomeno perché voluta, scelta e conquistata. Ma ancora una volta davanti alla fuga si presenta il baratro. Inseguite da decine di auto della polizia, simbolo dell’ordine da ripristinare, negli spazi sconfinati del deserto, come sconfinato è il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle, la nostra Thelma e la nostra Louise arrivano al momento clou: davanti c’è il vuoto, fisico e non, davanti c’è il Gran Canyon, un salto senza ritorno. Un attimo di riflessione per raccogliere le forze, per dirsi che non si torna indietro. Sul loro volto la felicità per averci provato, per averci creduto. Quanti possono dire di averlo fatto almeno una volta nella vita? Per questo, noi tutti, uomini e donne, guardandole ci siamo sentiti con loro. “Andiamo avanti” tuona Louise, e giù il piede sull’acceleratore. Ci sentiamo anche noi incollati ai sedili, il cuore sussulta, ci prepariamo al salto. Rimarranno sospese sul baratro, Ridley Scott non voleva che il sogno morisse, forse voleva che rimanesse lì, sospeso per tutti noi. La fuga non è finita.

C’è una fuga anche dalla famiglia e dal sistema costituito, nostro malgrado. “Se vuoi qualcosa veramente datti da fare e prendila”. Così si rivolge Cristopher McCandless (Emile Hirsh) – il protagonista di Into the wild (2007) – alla bellissima Tracy, cantante hippy che incontra sul suo cammino verso la libertà assoluta, unica vera tentazione di abbandonare il viaggio. Si parla di libertà, si parla di anticonformismo, si parla di sogni. A piedi verso l’Alaska il 23enne Chris si trasforma passo dopo passo in Alexander Supertramp, il viaggiatore estremo, anarchico, che dopo la laurea presa per compiacere i genitori, benestanti e ipocriti (la famiglia “borghese” di un tempo), cerca nella natura selvaggia e incontaminata se stesso, libero finalmente dalla schiavitù delle convenzioni e del denaro. La soluzione è sparire, senza lasciare traccia. È questa la punizione verso un padre dispotico e inesistente (William Hurt) e una mamma vittima e carnefice nello stesso tempo di una verità costruita e cotonata. Un viaggio tra montagne, fiumi, rapide dove ogni incontro diventa una storia dentro la storia. Persino la caccia all’alce e il momento magico dell’incontro con l’orso che sfiora appena il protagonista lasciando che il destino si compia da sé. Nessun nichilismo. Un urlo, questo sì. Libertà.

Mario Alberto Catarozzo

Formatore, Business Coach professionista e Consulente, è specializzato nell’affiancare professionisti, manager e imprenditori nei progetti di sviluppo e riorganizzazione.
È fondatore e CEO di MYPlace Communications, società dedicata al marketing e comunicazione nel business. Nella sua carriera professionale è stato dapprima professionista, poi manager e infine imprenditore. Per questa ragione conosce molto bene le dinamiche aziendali e del mondo del business. Si è formato presso le migliori scuole di coaching internazionali conseguendo le maggiori qualifiche del settore.
Collabora con Enti, Istituzioni e Associazioni professionali e di categoria e lavora con aziende italiane e internazionali di ogni dimensione, dalle pmi alle multinazionali.
È autore di numerosi volumi dedicati agli strumenti manageriali e di crescita personale e professionale. È direttore della collana Studi Professionali di Alpha Test Editore e autore de “Il Futuro delle professioni in Italia” edito da Teleconsul editore.
Professional Certified Coach (PCC), presso la International Coach Federation (ICF).
Per sapere di più sulle attività di formazione, coaching, consulenza e marketing visita i siti:

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Per info e contatti: coach@mariocatarozzo.it.