Fatta la premessa che nessuno può essere autenticamente felice sul lungo periodo di “singletudine” (sul breve invece può dare grandi soddisfazioni!), riprendiamo un post di qualche settimana fa dove abbiamo parlato di re-innamorarsi di se stessi.
Re-innamorarsi presuppone l’essere stati almeno una volta, un tempo, innamorati di se stessi. Questa condizione che può sembrare naturale ad alcuni, per altri è completamente sconosciuta. Piacersi, accettarsi e godere di se stessi per come si è, senza l’ansia di di dover cambiare qualcosa ad ogni costo per piacere e compiacere.
Da dove parte tutto?
Da come pensiamo, da cosa guardiamo di noi, da come ci guardiamo, dal “giudice interno”. Chi ha il giudice interno iperattivo, allenato a scatenare giudizi ad ogni pie’ sospinto, si troverà a fare i conti con questo limite più volte durante la giornata, che diventerà un percorso ad ostacoli prima di tutto nella propria testa, prima ancora che per le difficoltà oggettive che si presenteranno all’esterno.
Amarsi parte da un cambio di paradigma: mi amo perchè sono io, perchè esisto innanzitutto, perché se non lo faccio per primo io non lo faranno neppure gli altri. Mi amo perché è bello stare con me.
Noi saremo la persona con cui passeremo la maggior parte del tempo
nella nostra vita.
Che ne dite, ne vale la pena lavorarci sopra per stare bene?
Ripartiamo quindi da noi, lì dove siamo, senza troppe pretese iniziali, se non cercare di godersi insieme a se stessi ogni momento possibile.
La felicità è un progetto
Aspettative e aspirazioni
Sono la stessa cosa? No di certo. Le aspettative sono quelle che gli altri da sempre hanno su di noi. Le aspirazioni sono i nuovi livelli di soddisfazione che intendiamo raggiungere per stare bene. Le aspettative creano scenari in cui si può solo PERDERE. Le aspirazioni sono invece TRAMPOLINI verso nuovi livelli, dimensioni e driver del cambiamento e del futuro.
“Hai fatto solo il tuo dovere”
Per molti il viaggio alla scoperta delle origini della mancanza di auto-amore riporterà dentro le mura familiari di quando, da piccoli inermi frugoletti i nostri cari genitori amavano instillarci il senso di colpa e di inadeguatezza del tipo “o sei come ci aspettiamo da te, oppure sei una sfiga che ci è capitata tra capo e collo”.
Non far soffrire la mamma, non deludere il papà, non litigare con il fratello: insomma, il focus era sempre rivolto all’esterno, a far qualcosa per gli altri che facesse piacere a loro e che non deludesse le LORO aspettative. Ah, le aspettative, che terribile fardello per tutti. È come intraprendere una salita: non sai quando arriverai in fondo, a volte se ci arriverai, ma hai già capito che sarà una fregatura. Già, perché fatta la nostra salita, quindi preso il bel voto a scuola come da aspettativa genitoriale, ecco la frase solenne impressa nella mente di ciascuno: “hai fatto solo il tuo dovere!”. Ma come papà, ma come mamma, forse non avete capito?! Tutto questo l’ho fatto soprattutto per farvi felice, per ricevere un vostro apprezzamento, quell’agognato “bravo”, che tanto mi fa bene e mi manca. E invece no: “hai fatto solo il tuo dovere!“. L’amor proprio ringrazia, l’autostima vacilla, la fiducia si sgretola.
Ma il bello deve ancora venire nel percorso di vita. Già, perché finita la fase di frustrazione familiare, ecco che il mondo e la società si apre a noi. Iniziano i rapporti di coppia dove il trend è incontrare chi cerca di cambiarti e con il cipiglio di un testimone di Geova la domenica mattina ha come mission il “salvarti” dal come sei, dai tuoi difetti…
Di nuovo il tema delle aspettative, e relative delusioni, fa capolino nella nostra vita. Anche qui l’amor proprio ringrazia per il supporto. Ed ecco che è arrivato il turno del datore di lavoro che si aspetta da noi un certo comportamento… e poi il collega… e poi il cliente…
Insomma dove avrebbe potuto trovar spazio per alimentarsi e crescere quel famoso amore verso se stessi? Come avrebbe potuto, se l’attenzione è sempre rivolta a non deludere qualcuno, a incarnare il ruolo del bravo figlio, compagno, consorte, collega?
Ora basta!
Sapete che c’è?! Non sono più bravo per nessuno! Ora basta! Andate tutti a quel paese! È arrivato il momento di mettere me al centro, di prendermi cura di chi sono io oggi, di essere sanamente egoista. Cosa vuol dire? Che una volta che starò bene, davvero bene con me, starò meglio con gli altri. È arrivato il momento di ascoltarmi (c.d. “orecchio interno”), di sentire ciò che mi piace e cosa no, di prendermi cura del mio benessere. Se non ti piaccio è un problema tuo, non mio. Se non sono come mi vuoi peggio per te. TI aspettavi da me altro? Beh, hai sbagliato, cambia aspettativa. Punto!
Cultura, cultura, cultura
La difficoltà di amarsi è un fatto prettamente CULTURALE e quindi dipende da come pensiamo, da cosa guardiamo di noi, da come siamo allenati a vedere le cose.
Entra in gioco poi anche una differenza cultura uomo-donna. Tendenzialmente gli uomini sono stati allenati (e ci viene meglio) a pensare a se stessi; la donna, da bambina è stata impostata culturalmente con l’idea di trovare sempre un unto di incontro, un equilibrio, d supportare e sopportare. Oggi la cultura sta cambiando, ne parleremo tra vent’anni quando le nostre figlie saranno donne e sapremo se avranno imparato ad amarsi di più, senza guardare la ruga, la cellulite, il difetto al sopracciglio o il brutto carattere…
Amarsi parte da un cambio di paradigma, ricordiamolo.
Quello è il kick off della nostra nuova vita e dipende da noi più di quanto pensiamo…
Cominciate a pensare di volervi autenticamente bene perché siete voi, perché siete belli così, punto!
Il resto verrà un po’ alla volta…