Comunicare e parlare non solo la stessa cosa. Molti di noi pensano che il semplice fatto di avere detto una cosa, di averla, appunto, comunicata, sia sufficiente. Preoccuparsi di verificare se effettivamente il nostro interlocutore ha recepito ciò che volevamo trasmettergli…neanche a parlarne. E se non ci siamo capiti la colpa non è certo mia, bensì sarai tu che non capisci ciò che ti dico, che non ascolti abbastanza. Per citare Renato Zero “chissà se basterà mettere insieme le parole per consentirci di poter comunicare…”.
Per poter comunicare con efficacia con i nostri interlocutori dobbiamo innanzitutto partire da un presupposto cardine della PNL: che ciascuno si costruisce la propria mappa della realtà, una propria personalissima visione e poi per il resto della vita crede che sia quella vera e si meraviglia se gli altri non vedono le cose come lui. Se non si ha consapevolezza che la nostra realtà è una delle innumerevoli ricostruzioni personalissime, tutte altrettanto legittime e valide, non possiamo predisporci realmente all’ascolto degli altri e tantomeno ad instaurare rapporti in cui la comunicazione regni sovrana. Comunicare vuol dire capirsi, non necessariamente essere d’accordo. Nella nostra società, a tutti i livelli, politico, familiare, professionale, sportivo, sindacale, economico il primo vero problema è il non capirsi. Strano, vero? Nella società della comunicazione per eccellenza è inversamente proporzionale la quantità degli strumenti di comunicazione rispetto alla effettiva condivisione delle informazioni. Basta fermarsi una sera a vedere lo spettacolo fornito dai nostri politici in tv. Va benissimo avere posizioni diverse, pensarla diversamente, credere in valori, soluzioni, obiettivi differenti; ciò che fa specie è invece il fatto che non riescono a parlarsi per comunicare, che non c’è reale confronto e dialogo, che ciascuno va per la propria strada come su un solitario binario morto.
Ecco spesso questo accade anche in ambito professionale tra colleghi di studio, tra il titolare e i collaboratori, tra il professionista e il cliente. L’arte dell’ascolto e della comunicazione efficace non ci vengono, ahimè, trasmesse a scuola e tantomeno le impariamo all’università o nella pratica professionale. Anzi spesso ciò che viene proposto come modello è esattamente l’opposto: più sei prepotente e più ti ascoltano, più alzi la voce e più ottieni ragione.
E invece la comunicazione ha delle proprie regole perché sia efficace ed è il più potente strumento di persuasione e di motivazione che possediamo. Pensiamo a personaggi storici come Martin Luther King, Ghandi, Kennedy, Steve Jobs, hanno coinvolto, mosso, commosso, animato milioni di persone solo con le parole. Ma quelle parole erano accompagnate da altri tipi di comunicazione, altri canali ancora più potenti ed efficaci.
Accanto alla comunicazione verbale, cioè le parole che si stima pesino circa il 7% del valore complessivo della comunicazione, esiste la comunicazione paraverbale, cioè il modo in cui diciamo le cose (il ritmo, il tono di voce, la frequenza, il volume, la gestualità) che vale circa il 38% e la comunicazione non verbale, cioè la comunicazione o linguaggio del corpo: la postura, i movimenti, come siamo vestiti, lo sguardo, le espressioni facciali e così via. Quest’ultima pesa il rimanente 55%, cioè è quella che vale di più. Tradotto, è l’aspetto di cui siamo meno consapevoli e che siamo inclini a gestire meno che ha maggior influenza sul nostro interlocutore. Sia un colloquio di lavoro, un incontro d’affari, una relazione d’amore il corpo parla per noi, più di noi. Perché? Perché questa comunicazione viaggia a livello inconscio o preconscio, mentre le parole vengono filtrare dalla mente razionale e quindi da tutti ifiltri che essa comporta. Il marketing e la pubblicità questo lo sanno molto bene e lo usano per o contro di noi.
Provate a ricordare quando da piccoli i vostri genitori di fronte ad una vostra marachella non dicevano nulla ma vi fissavano in silenzio: momenti di paura, vero? Più che se avessero gridato. Il silenzio è il più potente strumento di comunicazione che esista! Va saputo usare, certo, ma dosato opportunamente serve a sottolineare, ad amplificare a far riflettere più di ogni parola.
TIPI DI COMUNICAZIONE
- VERBALE = ciò che dico, le parole, i contenuti
- PARAVERBALE = come lo dico (tono, frequenza, ritmo, volume)
- NON VERBALE = comportamento, postura, silenzio, respiro, gesti
La conclusione è che, come insegna Watzlawitch, poiché ogni comunicazione si compone di contenuto (ciò che dico) e contenitore (come lo dico), e poiché abbiamo visto che la comunicazione paraverbale e non verbale conta più delle parole, ogni qual volta ci troveremo in uno stato emotivo alterato, per esempio in preda alla collera, sarà opportuno non tentare di comunicare perché il nostro interlocutore, destinatario della comunicazione percepirà di più ciò che trasmette il nostro non verbale e paraverbale rispetto al verbale, le parole. La conseguenza è che non si focalizzerà su ciò che stiamo dicendo, ma sul come. Quindi, fare il classico “cazziatone” al collaboratore che ha sbagliato urlando non sortirà l’effetto sperato, ma servirà solo a sfogarci e a spaventare il collaboratore che non ascolterà ciò che stiamo dicendo, intento a difendersi dal come lo stiamo dicendo. Meglio, quindi in tal caso fare una pausa, riprendere l’equilibrio e parlarne con maggior calma, se il nostro obiettivo è comunicare e far capire l’errore in modo che non si ripresenti in futuro.
Pensate per chi è genitore a come ci rapportiamo con i nostri figli: loro ci fanno perdere la pazienza e noi gridiamo e…la cosa si ripropone una dieci cento volte. Conclusione? I nostri figli continuano a tenere sempre gli stessi atteggiamenti e non ci ascoltano più, tanto gridiamo sempre!