Il fattore caso, chiamamola sfiga o chiamiamolo culo, esiste eccome. Se ci pensate bene passiamo la nostra vita in costante equilibrio tra il successo e l’insuccesso, tra il riuscire e il non farcela, tra la vita e la morte. È questione di centimetri, come ci racconta in “Ogni maledetta domenica” un coach d’eccezione, Al Pacino, negli spogliatoi della sua squadra di football americano: un attimo prima e hai la presa, un attimo dopo ed è troppo tardi e quell’attimo ti fa perdere la partita e precipitare all’inferno, oppure ti fa diventare il più grande, osannato da tutti.
È così, se ci pensate, ogni noiosa domenica calcistica anche da noi: un gol fatto e sei una squadra in forma in corsa per il campionato, quel gol mancato e c’è aria di crisi, tutto va male, scelte sbagliate. E tutto per pochi centrimerti, per un soffio che cambia le sorti.
Nasciamo, diciamo così, con il 50% affidato al caso e 50% nelle nostre mani. Sta a noi dunque fare in modo che quella seconda metà rosicchi spazio alla prima. Se è questo il senso del “successo” di americana memoria, cioè il ” far succedere”, “far accadere” le cose che desideriamo, in cui crediamo, allora eccomi tra chi dice che il successo si può e si deve costruire con le proprie mani giorno per giorno. Non solo è possibile, ma ce lo dobbiamo, per rispetto alla nostra vita, che passa e va.
Ma andiamo avanti con i nostri racconti e a proposito di caso, non so quanti di voi conoscono la vera storia della prima bomba atomica su Hiroshima.
Il calendario segnava una data, purtroppo rimasta tristemente incisa nella storia: era il 6 agosto 1945 e nei cieli sopra il Giappone un enorme quadrimotore con dodici paia di occhi a bordo stava dirigendosi verso la meta prestabilita. Portava sulla pancia argento una scritta bonaria, Enola Gay. Il primo pilota aveva deciso di dedicare il volo a sua madre. Tenero. Peccato che nella pancia portava il più terribile carico di distruzione umano mai visto. Da questo carico dipenderà la vita o la morte di qualcosa come centomila persone indifese. Tutto programmato nei minimi dettagli, ovviamente. Penserete che quella che diventerà la città-simbolo del “mai più” sia già stata segnata, Hiroshima. Ma non è così. Paul W. Tibbets, il capitano, ha sul so block notes non uno, ma quattro obiettivi alternativi da colpire. Kokura, Niigata, Hiroshima, Nagasaki. Questi in ordine gli obiettivi alternativi secondo gli ordini ricevuti. Da cosa dipende la scelta? Dalle condizioni atmosferiche. Sì, avete capito bene, dalle condizioni atmosferiche. Per centomila persone la vita o la morte quella mattina dipenderanno dalle nuvole. 6000, 7000, 8000 metri, altitudine raggiunta, siamo sopra l’area da colpire. Arriva un messaggio via radio. È il metereologo a bordo dell’areo da ricognizione partito trenta minuti prima: la voce metallica dà il suo verdetto: un obiettivo è coperto dalle nuovole, su altri due la visibilità è limitata, sul quarto splende il sole quella mattina. Sono le 7 e 42 locali. La condanna è scritta oramai nella storia. Secondo voi qual’è la città su cui splende un sole limpido alle 7.42 di un 6 agosto sonnolento? E’ la città di Hiroshima, che la sorte ha deciso debba soffrire questa ferita. Il bombardiere vira, punta e sgancia. Il resto è la più terribile storia dell’ultimo secolo. Si apre la pancia del gigante e si spegne il sole per centomila persone. E tutto perchè quel giorno le nuvole avevano deciso così.
Nei fatti quotidiani, nel piccolo, piccolissimo di ogni giorno, capita così a tutti: ogni momento è un mix di ciò che abbiamo deciso e di ciò che i dadi tirati da qualche divinità bizzarra hanno deciso per noi. E’ così che il caso conduce a braccetto con i nostri sforzi le nostre vite. Chi ha visto il movie “Sliding doors” al cinema ricorda bene una metropolitana presa o persa come possa fare la differenza.
Alcuni poi dicono che tutto poi torna sempre là dove piani prestabiliti (da chi e perché?) già avevano deciso di farci arrivare. Certo è che, che il capolinea sia già fissato a priori e noi possiamo solo decidere le fermate intermedie, oppure che sia in gioco fino all’ultimo, a me piace pensare alla seconda e giocarmela al meglio, sempre. Più di questo non ci è dato fare e quindi diamoci dentro!