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Business e passione corrono insieme

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Cosa diceva Steve Jobs? Stay hungry stay foolish? Siate affamati, siate folli? Sì è sempre quello il tema conduttore di una vita che valga la pena di essere vissuta: la passione ardente che per molti rasenta la follia o la maniacalità. Già, quella benzina che si accende al mattino dentro di noi e ci riscalda, dà carica e fa correre a mille. Prima con la mente e poi con il corpo. Altro che il cuore oltre l’ostacolo. Ci sono passioni dove gettiamo tutti noi stessi oltre l’ostacolo e poi ci rincorriamo per recuperarci e alla fine sentirci di nuovo intatti, pieni e soddisfatti in quella totalità di sentimenti che da il senso a tutta la nostra esistenza. Sentite questa storia, fa tanto bene di questi tempi sentire storie, ancorarci a gesta epiche poi trasformate in business colossali.

Prendete una bicicletta, toglietele i pedali e piazzate un piccolo motore nella V del telaio. Ebbene avete ottenuto la prima Harley Davidson. Già, nacque proprio così nel lontano 1901 quella che diventerà la marca motociclistica più longeva e famosa del mondo (anche se pare che sia stata la Hildebrand & Wolfmuller verso la fine dell’Ottocento a produrre le prime motociclette in serie). Sembra tutto facile, vero? La leggenda vuole che i due fondatori siano ricorsi ad una scatola di latta per i pomodori per ricavarne il carburatore, a voi le conclusioni… Siamo a Milwaukee e i due pionieri, nonché amici, William Harley, figlio di un emigrante inglese di Liverpool, e Arthur Davidson sono solo ventenni. Appassionati  di meccanica e con un pallino in testa i due si ritrovano tutte le sere dopo il lavoro ad applicarsi al loro progetto che inizialmente aveva poco più che le sembianze di uno dei tanti giochi giovanili. Come spesso accade nei miti americani tutto nasce per gioco, da un’idea messa lì, su carta, e poi coccolata nel tempo, sviluppata e fatta crescere con passione. Anche questa volta, tutto ha inizio dietro casa, nel garage di famiglia. Allo stesso modo, o giù di lì, hanno avuto inizio anche l’avventura della Apple di Steve Jobs e della Microsoft di Bill Gates. Quindi non piccole imprese, ma imprese colossali, mondiali. Gli ingredienti pare siano sostanzialmente sempre gli stessi in tutte queste storie di miti americani: un’idea geniale, gioventù, passione, determinazione, pochi spiccioli per iniziare e voglia di provarci.

Ma torniamo ai nostri pionieri su due ruote. Il progetto era su carta, andava ora realizzato. I vicini e i familiari li sentivano armeggiare fino a notte fonda nel box costruito dal padre di Davidson, una casupola in legno di 4,5 metri per 3. Ore spese bene, dal momento che il primo prototipo, poco più di una bicicletta motorizzata con il telaio rinforzato, funzionò davvero dando il via alla produzione della moto simbolo d’America. Sulla porta di legno grezzo del box apparve di lì a poco la scritta a mano con vernice: Harley Davidson Motor Co. Era nata di fatto la società. La sua nascita ufficiale, tuttavia, avvenne due anni dopo, nel 1903, e ai due amici si unirono i fratelli Davidson William e Walter. Prima il nome Harley e poi Davidson (suonava meglio) e poi perché fu il primo ad avere l’intuizione e disegnare il motore. Nonostante le migliorie apportate al telaio per renderlo più funzionale e robusto, non si può dire che all’inizio le cose andarono bene per la neo società considerando che furono solo tre le moto vendute nell’arco dell’intero anno e a tutto il 1905 gli esemplari prodotti risalivano ad 11. Nel 1906 la società si ampliò trasferendosi in Juneau Avenue, tutt’oggi loro sede storica. Ma la vera svolta si ebbe negli anni successivi. Nel 1907 la produzione in serie della Harley-Davidson Motor Company aveva fatto un salto di qualità, la società aveva assunto dipendenti e i numeri cominciavano a diventare interessanti: oltre 150 esemplari venduti grazie anche, cosa che diede un impulso decisivo alle vendite, all’accordo stilato con le forze di polizia per la fornitura di motociclette, fornitura che dura tuttora. La polizia di Los Angeles sta montando Harley-Davidson dal 1930! Il boom si ebbe a partire dal 1909 con la produzione in serie del nuovo motore bicilindrico a V di 45°, il V-twin, utilizzato ancora oggi con le dovute migliorie. Le intuizioni di marketing non mancano ai quattro amici che grazie a slogan accattivanti e all’apertura di concessionarie in tutto il Paese diedero una forte visibilità al marchio oltre – idea che si rivelò geniale – alla decisione di partecipare alle corse. Qui le Harley Davidson si distinsero per velocità e robustezza e il ritorno di immagine fu enorme. Il mitico logo “Bar e Shield”, così come lo conosciamo oggi, era già lì incollato nel 1910 sul classico serbatoio “a goccia” – Teardrop (lacrima) – che abbiamo imparato a riconoscere come stile inconfondibile Harley. Nel 1912 la Harley-Davidson Motor Company comincia ad esportare motociclette niente di meno che in Giappone, Paese che negli anni settanta rappresenterà la maggior sfida per questo marchio. Moto innovative, silenziose, veloci, affidabili, competitive nel prezzo si affacciano sul mercato mondiale. Sono le moto giapponesi e la Harley-Davidson Motor Company comincia a scricchiolare, fa fatica a competere con questo nuovo “nemico”. Ci vuole un’idea, nuovamente un’idea geniale per risollevare le sorti del casa motociclistica più famosa al mondo. E l’idea arrivò. Dal marketing e dalla storia. Che cosa hanno le Harley-Davidson in più rispetto ai concorrenti? Sono in fondo moto ingombranti, poco pratiche, rumorose, impacciate, vibrano come “lavatrici in centrifuga”, hanno forme classiche, un po’ retrò, sono poco veloci. E allora? E allora sono proprio questi difetti a rappresentarne i pregi. È proprio su questo che punta il marketing dell’azienda: l’anima di queste moto. Rispetto alle concorrenti queste moto hanno un’anima, quando le guardi, quando ci monti su ti si riempie il cuore. Luccicanti nelle cromatura, con forme morbide e generose sembrano accoglierti in un abbraccio ogni volta. Ogni volta sembrano lì ad attenderti, scodinzolando come l’amico più fedele dell’uomo chiedendo solo di fare un giro insieme, tranquillamente, senza correre, un po’ di tempo insieme ancora. Con loro non si corre, si viaggia, con la mente e con il corpo. Non usano la strada, ma diventano tutt’uno con essa. Quando sali in sella abbracci la storia, sposi una filosofia di vita. Questo unisce milioni di appassionati. È quest’anima che ha permesso a Sportster, Dyna, Softail, Electra Glide, 883 e tante altre di attraversare epoche, mode, miti e continenti.

Ma torniamo agli inizi di questa storia. Nel 1917 gli Stati Uniti entrano ufficialmente nella Seconda Guerra Mondiale. C’era bisogno di moto robuste, affidabili e con poca manutenzione. Sono loro, le Harley-Davidson. 45.000 alla fine delle guerra gli esemplari prodotti per l’esercito americano. Dopo la guerra la produzione era alle stelle con il rifornimento delle forse di polizia americane. Due i modelli, la WLA e la XA, quest’ultima sul imitazione della BMW utilizzata dall’esercito tedesco (la Wehrmacht) e come quella tedesca dotata di motore boxer bicilindrico. Vi ricordate Alberto Sordi in “Un americano a Roma”, ebbene Nando Mericoni (l’albertone nazionale nei panni del giovanotto di Trastevere e ballerino di tip-tap appassionato del sogno americano) scorazza per la Roma anni ’50 proprio su una bianca Harley WLA 750 “liberator”.

Dal dopoguerra il cinema tributa a questo simbolo americano lo spazio che si merita sulle pellicole a stelle e strisce, passando dal mito hippy (Easy Rider di Dennis Hopper del 1969) ai nostri giorni con The Good Year (Un’ottima annata, 2006) di Ridley Scott con il mattatore Russel Crowe alla guida della sua Harley sulle strade sterrate dei panorami mozzafiato della campagna d’agosto nel sud della Francia, tra vigneti e vini pregiati di Provenza.

Riuscirete ancora ora a stare seduti dietro una scrivania?

Mario Alberto Catarozzo

Formatore, Business Coach professionista e Consulente, è specializzato nell’affiancare professionisti, manager e imprenditori nei progetti di sviluppo e riorganizzazione.
È fondatore e CEO di MYPlace Communications, società dedicata al marketing e comunicazione nel business. Nella sua carriera professionale è stato dapprima professionista, poi manager e infine imprenditore. Per questa ragione conosce molto bene le dinamiche aziendali e del mondo del business. Si è formato presso le migliori scuole di coaching internazionali conseguendo le maggiori qualifiche del settore.
Collabora con Enti, Istituzioni e Associazioni professionali e di categoria e lavora con aziende italiane e internazionali di ogni dimensione, dalle pmi alle multinazionali.
È autore di numerosi volumi dedicati agli strumenti manageriali e di crescita personale e professionale. È direttore della collana Studi Professionali di Alpha Test Editore e autore de “Il Futuro delle professioni in Italia” edito da Teleconsul editore.
Professional Certified Coach (PCC), presso la International Coach Federation (ICF).
Per sapere di più sulle attività di formazione, coaching, consulenza e marketing visita i siti:

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Per info e contatti: coach@mariocatarozzo.it.