Due ragazzi di fronte a me parlano. Anzi, uno parla mentre l’altro ascolta. Sono in treno e si va veloci. Una frase attira la mia attenzione nel concitato discorso che il giovane fa all’altro mentre a tratti, distrattamente, guarda fuori dal finestrino il paesaggio. “A morire per sempre lì…, ma almeno è al sicuro”. Parla, parla tanto questo ragazzo. Sopraccigli aggrottate, sguardo perso. Racconta di un amico, giovane pure lui, che ha trovato un posto di lavoro. Non capisco bene di che azienda si tratti, ma da come ne parla nulla di che. “A morire per sempre lì…”, sento. Come una calamita questa espressione mi tiene incollato lì. A tratti mi arrivano pezzi di racconto di questo posto di lavoro che almeno se non la felicità dovrebbe garantire un po’ di sicurezza, forse. Oggi neanche quella è più contrattabile con la felicità. Sveglia alle 6, un’ora e mezza di viaggio, si timbra. Acceso il pc si va al primo caffè della macchinetta, poi giù a rispondere al telefono, capire come dare un senso alle beghe che si affollano nella mail aziendale, due chiacchiere senza lasciarsi troppo andare con il collega vicino ed è ora di staccare per il pranzo. Mensa, coda, vassoio, solito posto solita gente, sembra tutto la fotocopia di ieri e ieri l’altro. Nuovo caffè, nuove chiacchiere, di nuovo seduti a fissare il monitor e rispondere al telefono. Si spegne tutto, è sera, è buio, di corsa verso il treno, si torna a casa. Durante, se possibile, si dorme un po’. Il racconto è finito.
Non era quello che voleva – dice il ragazzo di fronte – non era quello per cui aveva studiato. Lo conosco da quando eravamo bambini – continua – suonava la sera con noi del gruppo. A cena rideva sempre e faceva battute, cazzute, solo quelle sapeva fare, ma era simpatico. Era bello passare del tempo insieme. Dopo laureato è cambiato, il suo obiettivo non era più fare ciò che gli piaceva, per cui era portato, la sua passione. Il suo obiettivo era diventato un lavoro, qualunque fosse, purché con uno stipendio sicuro a fine mese.
“Ora vi trovate ancora a suonare la sera”, chiede l’amico. Macché, non lo vedo quasi mai, è stanco morto la sera, sta a casa davanti alla tv. Qualche volta ci sentiamo a telefono, ma poche parole. Si è spento. Ho provato a parlargli, a dirglielo che non lo riconoscevamo più. Mi parla del mutuo che vuole fare per la casa ed è già preoccupato perché noi la pensione non arriveremo mica a prenderla. Ma lui ci risponde che va bene così, che con quello che c’è oggi in giro è già felice di averlo trovato un lavoro, di avere uno stipendio. Mai sputare nel piatto in cui si mangia, ripete. Non so, forse ha ragione lui, con quello che si sente oggi anche io spesso ho paura, però come si fa a scegliere un posto dove ogni giorno si va a morire per sempre…
“Ma in cosa si è laureato il tuo amico”, chiede l’altro. In biologia, è un biologo. E cosa fa oggi? E’ impiegato in una ditta di trasporti.
Li guardo. Vorrei piangere, per i loro vent’anni, per i venti che ci separano. Perché non si può decidere a vent’anni di “morire per sempre” in un posto che non è il tuo. Non si può senza neppure averci provato. E a vent’anni ce lo si deve.
Sono arrivato, è la mia stazione. Scendo.
Continuo a pensare, non si può a vent’anni proprio non si può!